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Kashmir, storia di un conflitto

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Rassegna stampa curata saltuariamente da Marco Vasta


05/08/2004  PREGHIERE TRA ROCCIA E SABBIA (di Giovanna Capretti)


dal 05/08/2004 al 05/08/2004 Stato: India

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Regione: Ladakh Dipartimento: -
Città: Valle di Leh
dove:-
Fonte:Giornale di Brescia

In Breve (lingua: Italiano )

L’arrivo in aereo a Leh è spettacolare. Già appena lasciata Delhi si scorgono in lontananza le creste dei monti che si elevano al di sopra delle nuvole. Ci si avvicina e le catene montuose, parallele tra loro, si distendono a vista d’occhio.


Contenuto di: Originale: TRA ROCCIA E SABBIA PREGHIERE - Nel Ladakh, cuore buddhista dell’India (di Giovanna Capretti)

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Nel Ladakh, cuore buddhista dell’India
TRA ROCCIA E SABBIA PREGHIERE

Tre giorni di viaggio intenso, dall’estate incerta dell’Italia al caldo umido di Delhi, fino ai monti del Ladakh, in quel cuneo di India non-India che si infila tra il Tibet a est e il Pakistan ad ovest, diviso tra la lotta con la natura dei buddisti delle valli, e le tensioni indipendentiste dei musulmani del Kashmir. L’arrivo in aereo a Leh è spettacolare. Già appena lasciata Delhi si scorgono in lontananza le creste dei monti che si elevano al di sopra delle nuvole. Ci si avvicina e le catene montuose, parallele tra loro, si distendono a vista d’occhio. Himalaya, Karakorum, gli ottomila laggiù da qualche parte. Neve e roccia, monti modellati come enormi colline di fango solcate da fiumi scomparsi milioni di anni fa. Valli glaciali larghe e deserte, laghi piatti come vetro. Sotto, l’Indo scorre tortuoso e grigio-azzurro tra macchie di coltivazioni verde smeraldo che si staccano dal marrone della terra circostante.
Cielo terso come cristallo, tutto è immobile. L’aereo si abbassa e si infila nella valle, scivola accanto ai fianchi delle montagne, aguzzi di rocce sgretolate. La virata allarga lo sguardo su una valle laterale di sabbia spazzata dal vento, solo leggere increspature in superficie. Neve all’orizzonte. Ci si abbassa sui tetti verdi dell’ospedale militare, sulle baracche dell’esercito che qui, terra di confine e di conflitti, è presente dovunque. Si atterra senza scosse.
Benvenuti sulla faccia della luna. Leh si svela poco a poco, questa cittadina di 20mila abitanti cresciuta grazie al turismo dei trackers e a quello dei pellegrini buddhisti in visita ai monasteri della valle. L’anima turistica e commerciale (qualche guest-house gestita da nepalesi, negozietti di souvenir in cui acquistare scialli di pashmina e lana di yak, collane di turchese e perle di fiume come quelle delle donne ladake, rosari buddisti ed effigi del Buddha dipinte sulle tanke di tela) non ha travolto l’economia tradizionale, fondata su agricoltura e allevamento su scala familiare.
Lungo il torrente che attraversa il villaggio, ogni casa è una mini-azienda agricola da presepe, incastonata nel verde tra viottoli sterrati chiusi da muretti a secco, e canali di irrigazione scavati nella terra, che sempre più sottili si insinuano tra i minuscoli campicelli, portando l’acqua del ghiacciaio in ogni centimetro quadrato di terra dissodato a colpi di zappa. Grano, patate, cipolle, due mucche legate all’albero, il torrente dove si lavano i panni e le stoviglie di metallo. Le case in mattoni di fango crudo, appena intonacate, crescono l’una sull’altra, si stringono attorno al chorten , il luogo sacro segnato dal gruppo di stupa sgretolati dal vento, dietro ai quali sorride il Buddha affrescato sul muro. Il centro del villaggio si annuncia con il suono del clacson dei pochi veicoli di passaggio sulla strada asfaltata. Sullo sfondo il castello, imponente nelle mura di mattoni.
Le bandierine colorate delle preghiere (qui li chiamano lung-ta, cavallo nel vento, dall’immagine impressa sopra) sventolano su ogni tetto. Lungo la strada la solita confusione animata, bambini che escono da scuola e contadine che vendono sul marciapiede patate ed erbe, famiglie intere giunte dai villaggi vicini che si accalcano davanti alle botteghe e nel cortile del tempio.
È la dimensione del sacro, quella che colpisce di più in questi luoghi. Lontano dallo stereotipo dell’oriente mistico, il sacro è nella terra secca, nel fiume, nell’al di là dell’orizzonte chiuso da monti invalicabili. È nei gesti quotidiani, nel rosario sgranato durante il cammino, nella spinta impressa alla ruota della preghiera che fa tintinnare la sua campanella. La strada della valle è segnata dagli antichi monasteri, i gompa, arroccati sugli speroni di roccia. A Tiksey, pochi chilometri da Leh, il grande Buddha Maitreja, imprigionato nei due piani di altezza della cella del tempio, sorride indifferente alla musica pop che entra dal cortile, dove una troupe indiana sta girando uno spot pubblicitario sotto gli occhi ammiccanti dei piccoli monaci.
A Hemis, dove in questi giorni si celebra la festa per l’esposizione della grande tanka con l’effigie del fondatore, che ricorre ogni dodici anni, il rito della danza sacra e del pellegrinaggio al tempio si confonde con il grande bazar allestito all’esterno. La gente sale e scende lungo il sentiero, spintonandosi. Giovani in jeans e vecchiette negli abiti tradizionali, con cappelli di feltro beige dal risvolto verde, o buffi cilindri con la tesa girata in su a formare due corni appuntiti. Corallo, turchese e perle di fiume si combinano nelle collane preziose. Volti scuri di montanari, ciabatte incrostate di fango e scarponi, sciarpe e turbanti. Bambini portati a spalle da nonni devoti e rugosi, sorrisi sdentati e capelli neri spettinati dal vento e dalla polvere, trecce lunghe sulle spalle ornate di nastri colorati. La ressa arriva fino alla porta del monastero, avvolta dal fumo di un fuoco a legna su cui i monaci scaldano il tè da offrire ai pellegrini. Nell’ampio cortile interno, addobbato a festa con drappi rossi e gialli e la grande tanka appesa alla facciata del monastero, la folla si accalca per seguire il rito, la sfilata dei lama dai berretti gialli alti come creste, l’uscita dei ballerini dagli abiti sgargianti e dalle grandi maschere di cartapesta, a rappresentare le incarnazioni del Buddha e le altre divinità dai musi di fantastici animali, l’eterna lotta tra bene e male. Il suono stridulo delle trombe accompagna la nenia cantata dai monaci, al ritmo incessante dei tamburi e dei gong.
Sotto la tanka, i devoti si fermano a pregare, gettano rosari e sciarpe bianche ai due monaci affacciati alla loggia, che afferrano al volo gli oggetti sacri per benedirli in cambio di dieci rupie di offerta. Su e giù per le scalette sghembe di legno, nei minuscoli cortili interni, nelle celle semibuie del tempio, lungo i corridoi su cui si aprono le cellette dei monaci, è tutto un via vai di curiosi e devoti. In fila davanti alla statua terribile del dio ornato di teschi, o davanti all’impassibile Buddha bianco, tra i monaci che nella pausa dello spettacolo fanno colazione, frugando con le dita in cartocci di riso scotto e verdure. Seguendo la fila dei pellegrini, si sbuca sul tetto del monastero, spazzato dal vento. Sotto, la valle si stende larga fino alle creste innevate in fondo, inondata di sole. (1. Continua)

LA «VIA DI DIAMANTE», PERCORSO PRIVILEGIATO CHE PORTA L’UOMO ALLA SALVEZZA



Chiamato il «Piccolo Tibet» per il suo legame storico e culturale con la terra dei Lama, il Ladakh conobbe fin dal VII secolo la predicazione buddhista nella sua versione Vajrayana (o «Veicolo di Diamante»), che prese il posto della preesistente religione Bon legata all’adorazione delle forze della natura. Rispetto alle due vie preesistenti, Hinayana e Mahayana, «il Veicolo di Diamante - si legge nella guida di Ladakh appena pubblicata dal bresciano Marco Vasta - accelera i tempi della salvezza. Con il Vajrayana e le pratiche tantriche del Mantrayana, il fedele può raggiungere la salvezza anche in una sola vita. Al termine di una evoluzione millenaria, il Vajrayana himalayano si presenta con forme completamente differenti dal Buddhismo originario, il quale non parlava di Dio o di Dei, ed ancor meno considerava il Buddha una divinità, poichè era una filosofia od un modo etico di vivere. Il Vajrayana si presenta come una religione vera e propria, che ha sviluppato una cosmogonia e un complicato pantheon». Una seconda diffusione del Buddhismo sull’Himalaya si ebbe nell’XI secolo, dopo un periodo di persecuzione da parte degli islamici. Fu allora che il culto buddhista gettò le basi di una teocrazia che prese il potere in Tibet e nel Ladakh, dove la dinastia locale mantenne però autonomia ed indipendenza, favorendo la costruzione dei monasteri di Hemis, Tiksey e Stakna. (gio. ca.)


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