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INTERVISTA A TENZIN BHAGDRO (testimonial di "in marcia per il tibet") - 

13/11/2001 Stato: Italia

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Fonte:Missione Oggi
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Free TibetA cura di ALESSANDRA GARUSI

In occasione della "Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura", MO ha intervistato durante un seminario organizzato da Amnesty International a Milano il monaco tibetano Tenzin Bhagdro.
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Fate qualcosa perché i cinesi smettano di imprigionare e torturare i tibetani, rilasciandoli poco prima della morte. I cinesi stanno veramente facendo impazzire tutti.
Il Tibet, oggi più che mai, ha bisogno del supporto della comunità internazionale. Il popolo italiano dovrebbe agire sul proprio governo per spingerlo in questo senso.


Originale: INTERVISTA A TENZIN BHAGDRO
(lingua: Italiano )

HO UDITO IL GRIDO
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L’ITALIA AIUTI IL TIBET
A NON MORIRE
INTERVISTA A TENZIN BHAGDRO
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A cura di ALESSANDRA GARUSI

In occasione della “Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura”, MO ha intervistato durante un seminario organizzato da Amnesty International a Milano il monaco tibetano Tenzin Bhagdro.
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Fate qualcosa perché i cinesi smettano di imprigionare e torturare i tibetani, rilasciandoli poco prima della morte. I cinesi stanno veramente facendo impazzire tutti.
Il Tibet, oggi più che mai, ha bisogno del supporto della comunità internazionale. Il popolo italiano dovrebbe agire sul proprio governo per spingerlo in questo senso.

Il sangue colava lungo la schiena. ‘Questo è il Tibet libero, questi sono i diritti umani’, urlavano. Mi strinsero le manette così forti, che mi tagliarono i polsi. In carcere, c’erano monaci e monache appesi a testa in giù con facce sanguinanti che gridavano: ‘Per favore basta. Piuttosto uccideteci’. Rimasi sveglio tutta la notte. Se mi fossi addormentato, avrebbero ripreso a picchiarmi”. Inizia così l’agghiacciante racconto di Tenzin Bhagdro, venerabile del monastero di Ganden che ha subito sulla propria pelle ogni genere di tortura, di cui conserva traccia nel tremore delle mani. Imprigionato nell’88, quasi impazzito a causa delle violenze fisiche e psicologiche, fuggito fortunosamente all’estero, oggi quest’uomo percorre le strade dell’Occidente e degli Stati Uniti denunciando gli orrori dell’attuale regime cinese. Ecco l’intervista che ci ha rilasciato.

Nel 1959, il “paese delle nevi” fu invaso da 80mila soldati per ordine di Mao. La rivolta fu soffocata nel sangue e il Tibet fu sottoposto ad un processo di comunistizzazione brutale che vide il suo apogeo nel corso della “rivoluzione culturale”, dieci anni di assoluto disastro fino al 1976. In questi quarant’anni, qual è stato il tributo di sangue pagato dal suo popolo?
L’invasione da parte della Cina ha comportato la morte di un milione e 200mila persone e la distruzione di 6.000 monasteri nell’arco di questi quattro decenni. Moltissimi bambini sono stati uccisi senza ragione. Moltissimi sono stati incarcerati senza ragione. In carcere si mangia pochissimo. C’è chi, pur di non morire di fame, ha cucinato la pelle delle scarpe o ha tagliato pezzi del proprio corpo.
D- Diritti umani calpestati: un dramma che accomuna Cina e Tibet. Ci può dare qualche dato?
R- Amnesty International parla di 500 prigionieri politici tibetani in Cina. Soltanto nei primi quattro mesi del 2001, in Cina ci sono state 480 esecuzioni capitali. Da quasi cinquant’anni, il Tibet – ma anche la Cina, sul versante interno – vive questa situazione.
D- Lei è sempre stato impegnato in politica o lo è diventato?
R- Lo sono diventato. Fino a vent’anni fa, non lo ero. Mio padre era stato terrorizzato dai cinesi e da loro costretto a sposarsi. Così, quando nacqui io, non fui allevato nelle cultura e religione buddista. E la filosofia del governo cinese era sostanzialmente questa: “Quando c’è un problema posto da qualcuno, si elimina l’uomo”. Hitler, una figura ai loro occhi storicamente molto importante, ha fatto scuola.
Nel 1986 decisi di farmi monaco. Non per motivi religiosi, per una vocazione, ma perché volevo mangiare. E una delle mie sorelle era morta di fame. A quel tempo, il palazzo del Dalai Lama era diventato un museo. Bisognava pagare per entrarci. Ma sembrava che, in seguito alle pressione dell’Occidente, politicamente ci fosse qualche spiraglio per il Tibet. Per un anno lavorai nelle cucine del monastero. Poi un insegnante mi trasmise alcune nozioni di religione. E due americani arrivati in Tibet mi regalarono un libro del Dalai Lama. Un libro che mi ha aperto la mente. Decisi di dedicare la mia vita alla liberazione del mio paese. Scrissi dei poster del tipo: “La Cina fuori dal Tibet, lunga vita al Dalai Lama” e li appesi ovunque. Iniziarono alcune manifestazioni pacifiche, come aveva chiesto il Dalai Lama. In queste occasioni, la polizia normalmente attaccava e caricava.
D- Il suo arresto avvenne però due anni dopo?
R- Sì. Nel 1988, durante un festival musicale a Lhasa - organizzato dagli stessi cinesi che volevano dimostrare il rispetto della libertà religiosa (con tanto di foto di monaci buddisti in vesti tradizionali, pubblicate con rilievo sui quotidiani cinesi) - ebbi un ruolo di primo piano. Ero e sono un monaco. Non amavo e tuttora non amo la politica. Ma lì ne andava della mia libertà, della nostra stessa sopravvivenza. Il fatto di appendere poster in giro non era più sufficiente, bisognava esporsi in prima persona. I militari ricorsero alle armi. La polizia buttò dalle finestre ragazzini monaci di 12/13 anni, causando morti e feriti. Le statue in oro, i suppellettili, ecc. ogni cosa fu barbaramente distrutta. Questo è quanto aveva fatto Hitler, durante la Seconda Guerra mondiale. Le pareti dei monasteri vennero dipinte di sangue.
Fui ferito ad una gamba. Arrestarono moltissimi monaci. Il monastero fu chiuso. Divenne un campo militare. La polizia appese la mia foto ovunque. Arrivò persino un camion con quattro a bordo dai miei familiari. Li picchiarono per sapere dov’ero. Avrei voluto scappare in India, ma essendo senza soldi andai semplicemente verso sud. Lì comunque mi arrestarono. Scattarono le manette. Mi colpirono in viso. Mi dissero: “Adesso ti facciamo vedere i diritti umani. Ti portiamo nella casa dei diritti umani”.
D- Era il carcere?
R- Sì. Qui cominciarono a picchiarmi con il calcio del fucile. Quando chiesi di andare in bagno, mi appesero ad un albero e continuarono con i pestaggi. Il sangue colava lungo la schiena. “Questo è il Tibet libero, questi sono i diritti umani”, urlavano. Mi strinsero le manette così forti, che mi tagliarono i polsi. In prigione c’erano monaci e monache appesi a testa in giù con facce sanguinanti che gridavano “Per favore basta, piuttosto uccidetemi”. Rimasi sveglio tutta la notte. Se mi fosse addormentato, avrebbero ripreso a pestarmi.
Il giorno successivo mi portarono al centro adibito agli interrogatori. “Quanto ti ha pagato il Dalai Lama, quanto ti ha pagato l’Occidente, gli americani? Se non parli… (e indicavano gli strumenti di tortura)”. Dissi: “Nessuno mi ha pagato. Sono solo”. Mi misero in bocca uno strumento dell’elettroshock. Mi appesero completamente nudo. Mi gettarono dell’acqua gelida addosso. Il mattino dopo nuovamente mi appesero a testa in giù, mi picchiarono con bastoni di ferro. Mi ruppero delle costole. Una cinese con un guanto di ferro mi disse: “Se non parli oggi, ti uccidiamo”. In seguito a queste torture, impazzii. Non ero più in grado di riconoscere i miei familiari.
D- Da questo incubo come è uscito?
R- Questa era una prigione con 500 detenuti in Tibet. Poi mi trasferirono in un’altra, dove rimasi altri due anni e dove subii altre torture tremende. Mi tolsero molto sangue, che veniva poi spedito in Cina per l’esercito. In un momento in cui ero estremamente ammalato, fui ricoverato in ospedale, dal quale riuscii a fuggire. Allora pesavo 39 chili. Ero molto malato. Così rimasi tre mesi in montagna. Quindi mi spedirono in India, dove potei finalmente parlare con Amnesty International, Human Rights Watch, le Nazioni Unite, il Dalai Lama.
D- Cosa intende chiedere alla comunità internazionale e, in particolare, al governo italiano?
R- Chiederò la fine di qualunque pratica di tortura sia nei confronti del popolo tibetano, che di quello cinese. Sì, perché Pechino sta massacrando anche la propria gente e, per questa ragione, deve essere isolato. Mentre il Tibet, oggi più che mai, ha bisogno del supporto della comunità internazionale. Il popolo italiano dovrebbe agire sul proprio governo per spingerlo in questo senso.
D- Lei ritiene che un boicottaggio economico nei confronti della Cina potrebbe essere efficace?
R- Certamente, potrebbe essere un’ottima arma quella di smettere di importare dalla Cina. Perché i cinesi usano violenze e torture sulla propria popolazione e i prodotti made in China sono in gran parte fatti da prigionieri, di cui molti bambini. Questo deve finire. Anche la questione dei giochi olimpici che dovrebbero svolgersi in Cina… Si deve impedire che ciò avvenga, perché la Cina è un paese assolutamente sporco sotto questo profilo. In Cina e Tibet, il rispetto dei diritti umani non esiste. Non è concepibile che nel 2008 si debba concedere alla Cina di svolgere le Olimpiadi nel proprio paese. Vi prego di non eleggere la Cina come sede delle prossime Olimpiadi1. Questo è il messaggio che voglio dare anche al popolo italiano.
D- C’è ancora qualcosa che desidera aggiungere?
R- Questa è solamente la storia di un prigioniero. Sapete quanti sono oggi i tibetani prigionieri nelle carceri del loro paese e della Cina? Le sole cose che i cinesi stanno costruendo oggi in Tibet, sono le prigioni. Fate qualcosa perché i cinesi smettano di imprigionare e torturare i tibetani, rilasciandoli poco prima della morte. I cinesi fanno veramente impazzire tutti. Hanno sperimentato e continuano a sperimentare su di noi nuovi armamenti. Aiutate il Tibet a non morire.

A cura di ALESSANDRA GARUSI

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